Francesco Rondolini

Francesco Rondolini

Addio a Celso Valli.

Stamattina mi sono svegliato presto per fare una corsetta lungomare e appena terminata sono andato a fare colazione in hotel. Con calma ho accesso il telefono per controllare i messaggi e la posta. Apro Facebook e il primo post che mi compare è quello di un noto chitarrista italiano che dice che Celso Valli è morto. Rimango sgomento. Stropiccio gli occhi, rileggo bene. Scrollo ancora per vedere se ci sono altre notizie in merito. È così. Non ci sono dubbi. Il Maestro Celso Valli, bolognese classe 1950, ci ha lasciato. La sua carriera è così piena e costellata di successi che ci vorrebbero chissà quanti articoli per dettagliare una vita spesa totalmente per la musica. Celso era una persona culturalmente molto raffinata, di un’intelligenza e di una ironia fuori dal comune. Non voglio troppo dilungarmi nei meandri delle sue produzioni, mi limito solo a citare alcuni dei suoi lavori più significativi. Quest’anno ricorre il quarantesimo anniversario dell’album italiano più venduto di sempre, La vita è adesso di Claudio Baglioni. Gli arrangiamenti sono del Maestro Celso Valli. La sua collaborazione con Baglioni non si limita a questo. Cito Oltre [1990, ndr], un altro disco iconico del cantautore romano dove Celso ha realizzato un lavoro sopraffino.

Uno dei suoi matrimoni artistici più longevi è sicuramente quello con Eros Ramazzotti che parte da Terra promessa uscita nel 1984 e arriva fino ad oggi. Ha saputo accarezzare con la sua arte tutti i generi musicali, passando dalla dance – come non ricordare la hit internazionale Self control di Raf – al rock, al pop, alla classica fino all’ultima collaborazione in ordine di tempo, con il jazzista Paolo Fresu. Agli inizi della sua carriera ha suonato e prodotto numerosi brani italo disco, come consuetudine del tempo, su tutti San Salvador degli Azoto.

Negli anni Ottanta confeziona brani di successo quali Ti sento dei Matia Bazar, Nell’aria di Marcella Bella, Quello che le donne non dicono di Fiorella Mannoia e numerosi brani di Mina.

Negli anni Novanta incontra Vasco Rossi. La loro storia parte con il singolo del 1990 Guarda dove vai, passando a Senza Parole per proseguire fino a Sally nel 1996. Il capolavoro, per me assoluto, della coppia Rossi/Valli è l’album Canzoni per me [1998, ndr]. È il disco del rilancio definitivo del rocker di Zocca dove ci sono otto brani del Vasco più intimo, più cantautorale, più romantico, più dolce e più fresco che Celso ha saputo valorizzare e impreziosire come nessuno mai. Da metà di quel decennio in poi, in ogni lp di Rossi c’è qualche brano diretto da lui. La sua perla più preziosa, quella a cui tiene di più di tutte fra quelle fatte con Vasco, è certamente il disco L’altra metà del cielo che è stato suonato al Teatro La Scala di Milano. In un nostro incontro mi ha confidato che era molto fiero di quel lavoro e leggere il suo nome in una locandina nel foyer de La Scala accanto ai Maestri della musica classica, gli impreziosiva l’animo.

È stato più volte direttore d’orchestra del Festival di Sanremo accompagnando i “suoi” artisti su quel palco autorevole e rinomato con grinta e raffinatezza. Nell’ultima apparizione di Vasco all’Ariston [2005, ndr] ero più curioso di vedere Celso dirigere gli orchestrali in quel momento così iconico e irripetibile, che la performance del rocker stesso.

Tanti altri artisti quali Adriano Celentano, Laura Pausini, Irene Grandi, Patty Pravo, Andrea Bocelli, Il Volo, Renato Zero, Ornella Vanoni, Francesco Renga (la lista sarebbe molto lunga), in un certo qual modo devono dire grazie a lui per i sontuosi arrangiamenti che hanno portato ancora più in alto i loro successi.

Nel nostro incontro mi ha raccontato, sorridendo, tanti aneddoti di quel mondo. Come quando registrarono Ricominciamo di Adriano Pappalardo, con quella rullata di batteria a metà pezzo che non usciva mai come voleva lui, ma che alla fine è riuscito a ottenerla, consigliando al meglio il batterista senza invadere il suo spazio di lavoro.

Ho visto un onesto sorriso sul suo volto quando gli ho fatto vedere uno dei suoi primissimi 45 giri intitolato Pasta e fagioli, canzone simpatica e frizzante che appartiene a quegli anni Settanta dove le tante tipologie musicali potevano essere espresse da giovani talenti come Celso.

Con lui se ne va l’ultimo genio capace di precorrere i tempi e le tendenze musicali, di sapere quante note inserire o togliere in una canzone per renderla ancora più bella, di dirigere musicisti italiani e internazionali di livello superiore. Al pubblico generalista dico che ogni volta che sentirete delle hit italiane in radio, sappiate che molte portano un vestito confezionato da Celso.

Gli va riconosciuto un altro pregio, comune a pochi. Si è saputo circondare di musicisti transgenerazionali e ha diretto pesi massimi del calibro di Vinnie Colaiuta, Tony Levin, Micheal Landau e italiani quali Alfredo Golino, Lele Melotti, Paolo Gianolio, ma scovando e apprezzando giovani talenti quali Mattia Tedesco, Beatrice Antolini e suo figlio Paolo.

Nelle mie tante interviste a strumentisti italiani, quando lo abbiamo citato, dai diretti interessati sono sempre e solo uscite parole di elogio e di stima. Merce rara in quel mondo.

Ringrazierò sempre Paolo, uno dei batteristi italiani più bravi e talentuosi che abbiamo oggi in Italia, nonché caro amico, per averci fatto incontrare in un pomeriggio riccionese di mezza estate. Era il luglio del 2021 ed eravamo all’alba dei green pass, dei possibili obblighi vaccinali e degli innumerevoli diktat pandemici. Ricordo benissimo la sua pacata reticenza nel metabolizzare quegli obblighi di stato che di lì a poco spezzarono ideologicamente e socialmente l’Italia. Le sue analisi erano lucide, da uomo di vera cultura, con una mente aperta sempre al dialogo e al confronto.

Quell’intervista la conservo gelosamente e la pubblicherò in uno dei miei prossimi lavori come promesso.

Buon viaggio, Celso. Ciao e grazie di tutto.

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