Roberto Masotti (1947 – 2022) si appassiona alla fotografia sin dalla giovane età. Ha studiato a Firenze per poi trasferirsi a Milano nel 1974, divenendo nel tempo uno dei punti di riferimento della fotografia in ambito musicale. Ha creato alcuni degli scatti più iconici degli anni ’70 italiani e oltre. Grande ricercatore culturale, Masotti è stato inoltre tra i fautori di Gong, pionieristica rivista italiana di critica musicale degli anni Settanta. E’ stato fotografo ufficiale del Teatro alla Scala di Milano. Tra le grandi passioni del fotografo c’è il jazz: ha prestato il suo sguardo a etichette di altissimo livello come la tedesca ECM, per la quale ha curato oltre duecento tra copertine e libretti, e durante la sua carriera ha immortalato con il suo obiettivo artisti come Miles Davis, Archie Shepp, Carla Bley, Sam Rivers, Cecil Taylor, Charles Mingus, Ornette Coleman e Keith Jarrett. A quest’ultimo ha dedicato uno dei suoi più importati suoi libri, Keith Jarrett: A Portrait, quarant’anni di cronache e sessioni dal 1969 al 2009. In questa intervista che ho fatto con lui nel 2021, Roberto Masotti racconta la sua esperienza a Umbria Jazz, ricordando i primi anni della kermesse umbra come quelli più iconici e interessanti per cast artistico e per l’atmosfera di grandeur che iniziava a pervadere il festival. L’intervista è contenuta all’interno del mio ultimo libro Il Festival di Umbria Jazz. Una ricostruzione storica.
Sei riuscito a unire professionalmente due tue grandi passioni come la fotografia e la musica.
Abitavo a Ravenna, ero appassionato di jazz e andavo ad ascoltare concerti a Bologna e a Milano con un gruppo di appassionati molto competenti. A un certo punto chiesi in prestito la macchinetta fotografica a mio padre e andando a un concerto a Bologna di Ornette Coleman o di Jarrett, non ricordo bene, ho fatto delle prime foto. Vennero fuori delle buone fotografie e da lì sono andato avanti. Ho frequentato negli anni numerosi raduni musicali in giro per l’Italia. Ho realizzato nel 1971, assieme a degli amici che facevano serigrafie, una serie di quattro manifesti sul jazz che poi vendevo ai festival. Parallelamente cercavo di farmi una cultura riguardo alla musica che seguivo. Nel 1969 ero stato al festival di Montreux e avevo pubblicato sulla rivista Ciao 2001 alcuni reportage, scrivendo articoli e pubblicando foto mie. Incrociando tutte queste cose veniva fuori in nuce una figura semi professionale che poi sarebbe diventata professionale con uno step successivo. Franco Fayenz e Carlo Bubani – il fondatore del festival jazz di Ravenna – parlarono con Alberto Alberti dicendogli che a Ravenna c’era un ragazzo bravo e molto promettente. Alberti mi telefonò immediatamente e mi disse: «Guarda, a Perugia parte Umbria Jazz. Si fa un grande festival jazz e vorrei che tu facessi una mostra». Detto fatto. Nel 1973 mi ritrovo a dividere lo spazio nell’androne di Palazzo dei Priori con il disegnatore Luigi Tilocca e in quell’occasione costruisco una primissima mostra che chiamo «Immagini per il jazz». Ripensandoci oggi mi viene da sorridere [ride]! Lo dico non tanto per nostalgia ma per auto indulgenza. Era una piccola mostra dove mi pare esposi venticinque foto a colori con formato 40×60 e 24×30. Spaziavano dal jazz al blues. Quella mostra poi la portai in altre città tra le quali Montreux e la Feltrinelli in centro a Bologna. Le cose da un certo punto di vista comunicativo funzionavano e la mostra di Perugia coincise proprio con la prima edizione di Umbria Jazz. Mi ricordo che alloggiavo all’hotel Brufani e mi sembrava di stare al Louvre! Ci feci presto l’abitudine a seguire i festival sempre più assiduamente, così avevo anche l’opportunità di conoscere molti critici e altrettanti musicisti e ad avere sempre più confidenza con quest’ultimi. Ti racconto questo episodio perché secondo me è esilarante. Nella prima edizione di Umbria Jazz c’era L’Arkestra di Sun Ra, un personaggio quantomeno strano. Nel pomeriggio lo intervistiamo io, che facevo le foto, e un giornalista. A un certo punto gli dico: «Guarda che c’è una mia mostra dove ci sono delle foto tue, della Arkestra e di June Tyson [cantante dell’Arkestra, Ndr]». Finita questa lunga intervista, si va a mangiare. Finita la cena parte questa lunga processione dall’hotel Brufani di tutta l’Arkestra verso piazza IV Novembre dove c’era il palco allestito per l’esibizione. A un certo punto Sun Ra mi fa: «Dove hai detto che è questa tua mostra?». Io gli dico: «Si entra da quel portone». Beh, che tu ci creda o no, lui fa un cenno e tutti quelli della Arkestra lo seguono a vedere, se pur brevemente, questa mostra con mia grande soddisfazione. Ricordo gli organizzatori che avevano i capelli dritti in testa e che dicevano: «Ma cavolo, deve andare a suonare!». Non male per la mia mostra d’esordio! Devo dire che Umbria Jazz in quegli anni dal punto di vista fotografico e per quello che proponeva, richiamò una quantità di pubblico spaventosa. perché un anno annullarono il festival rock all’arena Santa Monica di Misano e buona parte di quel pubblico col sacco a pelo si riversò a Perugia. Per cui si ebbe questo fenomeno di occupazione della città, ma anche di un pubblico generoso, un pubblico pittoresco, che comunque dimostrò di accogliere anche le punte di avanguardia jazz molto meglio degli organizzatori stessi. Agli organizzatori, al tempo, Sun Ra non piaceva. Invitarono il jazz d’avanguardia di Anthony Braxton, senza malcelato opportunismo, nel senso che loro capivano che era un festival che si rivolgeva ai giovani e sapevano che chiamando questi personaggi avrebbero attirato giovani, anche se sia Pagnotta che Alberti e Cicci Foresti, erano tradizionalisti. Però sapevano benissimo cosa proporre, perché loro commerciavano in jazz organizzando concerti. Non è assolutamente un’accusa, anzi, ma era così. Il risultato era comunque di un festival travolgente con queste carovane che andavano in giro per i vari luoghi della regione ad assistere ai concerti. Già si percepiva l’atmosfera da grande festival.
Alcuni hanno definito l’Umbria Jazz degli anni Settanta una piccola Woodstock italiana.
C’è il fatto della libertà, di una corrispondenza di una musica che fosse sintomo di libertà, come una bandiera. Ascoltare, ad esempio Anthony Braxton nell’edizione del 1974, da solo per mezz’ora, è roba tosta pensandoci oggi, di fronte a decine di migliaia di persone. Ma anche il trio di Sam Rivers non è che fosse acqua fresca, capisci? Anzi, il discorso lì si faceva più complicato, perché rischiavano di più i complessi tradizionali che venivano fischiati. Stan Getz veniva fischiato.
Erano anni politicamente turbolenti dove spesso la musica veniva ideologizzata.
Per la verità era più la critica tradizionale, e talvolta anche destrorsa, che bollava questi musicisti di fare ideologia. In realtà invece, secondo me, questi musicisti esprimevano un dato così necessario di contemporaneità che avevano preso sul pubblico. Non c’era bisogno neanche di tante spiegazioni. Stan Getz ti faceva battere il piedino ed era atroce il fatto che lo fischiassero. Persone magari digiune di storia che però catturano quell’idea di contemporaneità che quella musica può esprimere, come il teatro musicale di Sun Ra, un po’ amabilmente straccione se vuoi, ma che musicalmente esprimeva tanto. Oppure l’anno dopo Keith Jarrett in piano solo. Keith Jarrett in rapporto a Stan Getz o all’orchestra di Thad Jones e Mel Lewis, o al gruppo di Mingus – uno dei gruppi più belli della storia del jazz – lì c’era poco da discutere. Con Jarrett andavi, seguiti e ascoltavi. Era fantastico. Era una musica che ti avvolgeva, che ti prendeva anche dal punto di vista dell’attrazione. Io stesso che stavo sul palco, se c’erano le prove al pomeriggio le seguivo, oppure facevo dei reportage nell’albergo. Facevo tutto questo perché c’erano riviste come Gong, per la quale io feci un reportage introducendo Umbria Jazz da un punto di vista più reportagistico e meno musicale. Narravo quello che avveniva, perché era una cosa eclatante. Gong era la più bella rivista di quel periodo e dava molto spazio all’immagine e alla fotografia. Era molto critica. Noi tutti eravamo un gruppo molto critico, perché chiaramente a noi interessava il discorso sulla contemporaneità e sul jazz più moderno.

Leggendo le riviste dell’epoca ho notato che davano parecchio risalto a manifestazioni come Umbria Jazz, ma poi negli anni Ottanta si vedono scemare questo tipo di reportage per dare spazio a tutt’altra musica.
Mi viene da pensare che un conto è organizzare un festival come Umbria Jazz all’aperto e itinerante e che ha un fascino e una caratteristica ben delineata. Nelle stagioni autunnali o primaverili questa tipologia di concerti viene organizzata nei palasport, come a Bologna per esempio, dove si può ascoltare Ornette Coleman o Keith Jarrett in un teatro con un’ottima acustica e in un ambiente più consono. Forse gli organizzatori cominciano a pensare che è meglio spostarli nei palasport, vuoi per la maggiore richiesta di pubblico, ma si snatura un certo tipo di discorso. Il palasport fa schifo, perché viene adattato a un momentaneo auditorium, pur avendo un’ottima amplificazione. Però è una struttura che è ben poco allettante e anche dal punto di vista formativo è basata più sulla quantità che sulla qualità. Invece Umbria Jazz di quegli anni era una specie di isola, era qualche strana cosa che poi si sarebbe trasformata, si sarebbe istituzionalizzata e avrebbe perso le caratteristiche iniziali, tant’è che io poi non l’ho più seguita. Credo di esserci andato per l’ultima volta nel 1976 e poi tornai tempo dopo per il trio di Jarrett perché dovevo fare un servizio per ECM. Recentemente son tornato perché ho fatto una mostra alla Galleria Nazionale dell’Umbria, assieme a mia moglie, per cui ho incontrato dopo tanto tempo Pagnotta il quale venne alla conferenza stampa. Io avevo mollato senza alcun rimpianto, perché ne avevo avuto abbastanza di atmosfere tipo quelle del festival di Montreux, dove oggi come oggi se tu vai a ripensare chi hai ascoltato e chi hai visto, ti vengono i brividi. Però all’epoca quell’impostazione non piaceva, sembrava culturalmente sbagliata, molto commerciale. Poi c’era del molto buono. Dopo aver fatto quella mostra nel 1973, io non ho fatto più una mostra sul jazz fino a che nel 1999, un amico mi disse: «Faccio questa rassegna a Pavia e mi piacerebbe aprire con una tua mostra». È lì che ho concepito Jazz Area che è un percorso molto autobiografico legato alla mia personale vicenda. Trovo che sia vero che c’è questa passione dei fotografi jazz, ma rischi di mancare il bersaglio storico, cioè dell’evento e della formazione di un qualche cosa. Nasce un movimento, nasce una tendenza nel jazz che magari proviene da New York o a Chicago e poi arriva a Bologna. Però tu non eri là dove è nata, non hai fotografato la nascita di qualcosa, hai fotografato quello che potevano fotografare tutti, mi comprendi? Voglio dire che c’è una mancanza di atteggiamento storiografico che secondo me giustifica un po’ tutto e spesso si dice «Ah, ma quello fa delle bellissime foto!». Però io tutt’ora penso che corrisponda a delle operazioni non di grande utilità, ma di accumulo, di raccolta di figurine. Io invece ho tentato negli anni, pur non frequentando gli Stati Uniti, di seguire molto di più ciò che accadeva a Londra, in Germania, a Berlino e così via e mi sono sentito parte invece di quei movimenti e sono stato accettato come testimone di quelle cose che nascevano lì. Quando ho poi fatto il libro non ho più voluto far la mostra relativa al libro, perché l’avevo già fatta. Manca un tassello perché avrei voluto fare un video e ancora non l’ho potuto fare, ma io procedo per segmenti, per progetti e non mi interessa più quell’accumulo che ha fatto sì che abbiamo, sia io che mia moglie, costruito un archivio pazzesco. Invece le cose che noi salviamo sono quelle sul quale abbiamo costruito un nostro punto di vista, un nostro lavoro e secondo me la gente lo capisce.
Beh, di fatto sei stato testimone di qualcosa di unico e irripetibile a Umbria Jazz 1973.
Sicuramente! Anzi, sono poi aspetti formativi perché vieni buttato in un mare di possibilità che sono quelle di fare delle foto sul palcoscenico, fare dei ritratti, incontrare i musicisti, parlare con loro, intervistare, assistere a delle interviste, pubblicare tutte queste cose sulle riviste. L’aspetto della pubblicazione è fondamentale, perché è una conferma del tuo operato e della professionalità. Spesso avviene che ci sia un approccio molto amatoriale: ossia chi ha la passione della fotografia e ha la passione del jazz ci si butta. Magari col semplice tentativo di produrre delle immagini che lascino un segno, che rappresentino qualcosa che siano in grado di evocare dei momenti precisi ed è quello che credo io. Un’immagine musicale deve avere questa forza, perché altrimenti è inutile. Sennò ti dice semplicemente che quello lì è Dexter Gordon senza che la foto ti trasmetta nulla, non evocativa e non ti trascina dentro. Invece ne hai un’altra che ti trasmette e che sembra dirti: «Guarda, sono qui. Ascolta», ed è un’evocazione di quel momento sonoro. E questo è tutto un altro affare, un altro business.
La capacità di immortalare questi momenti così evocativi e particolari non è da tutti.
Quando fotografi il jazz, un direttore d’orchestra o grandi personalità con carisma straordinario, è come se emanassero naturalmente un’aura, qualcosa di unico. Tuttavia, il compito del fotografo è quello di sottrarre, di arrivare all’essenza e distillare immagini che, guardandole in futuro, ti facciano dire: «Ecco, è proprio quella foto!». Con il tempo, e magari grazie a numerose pubblicazioni, quella fotografia si impone, diventando iconica. In passato, tutto questo aveva anche risvolti commerciali che ti sostenevano; oggi questi aspetti sono quasi del tutto svaniti, ma la soddisfazione e la gloria restano [ride]!
Tornando a Keith Jarrett, hai pubblicato un libro su di lui. È un personaggio particolare, confermi? Che ricordi hai e che significa fotografare uno come lui?
Durante Umbria Jazz del 1974 lo fotografai proprio dal palcoscenico in una situazione incredibile che non avrebbe mai più accettato negli anni a venire. Io avevo conosciuto Keith Jarrett l’anno prima al festival di Bergamo dove avevo fatto un servizio fotografico che era servito sia alla ECM che alla Impulse. Devi capire cosa poteva essere Jarrett in quel periodo. Era una persona molto determinata, un musicista che cercava di affermarsi a tutti i costi, anche svincolandosi dall’idea di Miles Davis, quindi di affermare la sua personalità, ma era una persona totalmente disponibile. Mi ricordo che proprio nel 1974 gli dissi: «Senti, domattina andiamo un po’ in giro a fare delle foto?». Lui mi rispose: «Si!». E il giorno dopo andammo in giro a trovare luoghi belli in cui fare qualche scatto. Lui si fidava, perché sapeva cosa avevo fatto l’anno prima a Bergamo, le foto gli erano piaciute molto e quindi era disponibile. Questo è avvenuto un sacco di volte e in diverse città. Purtroppo non negli Stati Uniti, perché lì non credo di averlo mai fotografato. Dopo è arrivata la malattia, la sindrome da fatica cronica, che gli ha cambiato il carattere. Lì l’uomo è cambiato. Con un francesismo possiamo dire che era un rompi coglioni anche prima, però da lì in poi è successo un qualcosa e ha fatto diventare ossessive certe sue manifestazioni nei confronti dei fotografi e di qualsiasi cosa potesse disturbare il concerto. Io francamente l’ho sempre difeso, ma non perché lavorassi con l’ECM, ma perché io ero d’accordo. In quegli anni lavoravo al teatro La Scala di Milano e in altri importanti teatri con i musicisti classici e certe cose le devi capire, quindi perché accanirsi contro di lui che in fondo reclama unicamente il diritto a suonare in un’atmosfera decente? Ho sempre difeso il suo punto di vista. Perché uno deve alzarsi e fare una foto col telefonino quando lui chiede di non farlo? Sono molto orgoglioso di questo ultimo libro che ho pubblicato su Jarrett. A loro il libro è piaciuto molto, sono in contatto anche con quelli dell’ECM, e quando faccio progetti di questo tipo glielo annuncio e loro non hanno problemi. Credo che oggettivamente non ci sia nessun altro, e puoi accorgertene sfogliandolo, che nel mondo possa avere un repertorio di quel tipo. Tante cose è vero che non ci sono, perché non ho potuto seguire tutto. Io sono uno [ride]!
Era facile poter accedere al palco per fotografare?
All’epoca c’erano degli accrediti per noi fotografi, ma la cosa era un po’ selvaggia. Devi calcolare che c’erano anche molti giornalisti che fotografavano per cui invadevano molto il campo, ma tutto sommato era lecito. I fotografi accreditati non erano tantissimi. Quelli ufficiali saremmo stati una decina. C’era sempre qualche infiltrato che riusciva a eludere la sorveglianza. C’erano gli accrediti, come c’erano in altri festival. Al festival di Bergamo mi ricordo delle jam session in hotel dopo la conclusione dei concerti. Si mangiava e poi partivano a suonare. Mi ricordo bene queste jam a Montreux dove si faceva mattina.
Che rapporto avevi con gli organizzatori di Umbria Jazz Carlo Pagnotta e Alberto Alberti?
Alla fine devo essere grato a entrambi, perché ho potuto fare quelle cose lì soprattutto per iniziativa di Alberto Alberti. Con Pagnotta c’era un rapporto di amore e odio.
Hai qualche aneddoto da raccontarci?
Mi ricordo Mingus seduto su una sedia fuori dal Brufani con un sigaro infastidito da più di un fotografo, oppure fare i ritratti a Gil Evans, a Don Pullen, a Sam Rivers con la moglie. Sono cose di per sé avventurose, ma importanti. Servizi fotografici che poi venivano pubblicati in varie riviste.